La matematica è un’opinione ma Giorgia Meloni ha vinto le elezioni politiche con grande destrezza.
Chi somma le percentuali degli avversari della destra, pensando che uniti avrebbero vinto, non ha chiaro il contesto. Quei partiti non potevano stare insieme perché non c’era intesa sui passi successivi al 25 settembre. Oggi in Italia non c’è alternativa alla maggioranza che governerà, e l’alternativa non manca nella pancia del paese, manca nei gruppi dirigenti. La scarsa affluenza e il senso di smarrimento ne sono la prova.
L’ultima tornata elettorale ci lascia vari significativi elementi che i più svegli, nel ventaglio della partitocrazia italiana, avranno già mandato in memoria. I meno svegli invece proseguiranno nella disfatta. Dopotutto, Wanna Marchi (non la cito a caso) direbbe che i confusi meritano di essere fregati. Non c’è confuso più confuso di chi vede una divinità in luogo di se stesso, sottovalutando le prassi della competizione.
Il primo grande errore lo ha commesso Matteo Salvini nell’estate del 2019, forse troppo calda, quando fece cadere il primo Governo Conte che, suo malgrado, gli stava offrendo enorme visibilità, e che aveva accelerato la crescita della Lega in punti percentuali. Caduto quel governo, e perduta la carica di Ministro dell’Interno che gli permetteva di farsi propaganda sul sangue dei migranti morti in mare, il successo di Salvini e la sua fortuna si sono presto dissolti.
Il secondo grave errore lo ha commesso il Partito Democratico. È successo quando il redivivo traditore Renzi fece cadere il secondo Governo Conte (correva l’anno 2021). L’immagine dell’allora uscente Presidente del Consiglio toccava picchi altissimi. Andando a elezioni subito probabilmente il centrosinistra che all’epoca teneva insieme PD e M5S avrebbe vinto, invece il Partito Democratico virò su Mario Draghi premier facendo goire Renzi e attirandosi addosso le ire dei cittadini che ritenevano il noto banchiere insensibile alle loro sorti.
È sentire comune che il bene del popolo e la salute dell’alta finanza non coincidano, e il Governo Draghi non ha avuto certo l’aria di un governo popolare. Era scontato che i partiti allineati avrebbero perso consenso. È stato il caso del PD e della Lega (che partecipò per accaparrarsi forse qualche poltrona) e più tardi di Luigi Di Maio, ma di lui parlerò più avanti.
Il partito diretto da Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, alle poltrone in quella circostanza ci rinunciò, puntando tutto su una opposizione al sapor di coerenza, sbiadendo i contorni più neri, fissando il linguaggio al livello lessicale su cui è stanziata la destra italiana. I risultati oggi sono evidenti.
Caduto il Governo Draghi, il Movimento 5 Stelle che pure s’era messo dalla parte del torto, avvantaggiato dal PD autocentrato e autolesionista, ha raccolto una buona parte di voti generalmente orientati a sinistra. Le finali posizioni anti Draghi, l’indisponibilità a pesare sulla popolazione aumentando la spesa militare hanno poi avvicinato ai cinque stelle un elettorato concreto, poco incline agli eccessi e al folklore, un elettorato disinteressato a prendere parte alla guerra che si sta combattendo in Ucraina. Aggiungo, come già detto su questo blog, che Giuseppe Conte ha svolto una brillante campagna elettorale, è sempre parso determinato e sicuro, forte, competente, affidabile. Il Partito Democratico che ha rifiutato l’alleanza col M5S è invece sembrato lontano dai bisogni delle persone, e quindi inaffidabile. Le chiacchiere di una sinistra vaga (troppo a destra in economia) sono state del tutto insufficienti in una fase in cui tra covid, guerra e rincari le persone vanno a caccia di soluzioni immediate. Lo spauracchio fascista e l’alleanza con VerdiSinistra e col partito europeista di Emma Bonino hanno portato pochissimo. Nella coalizione costruita intorno al PD c’era poi il micro partito di Luigi Di Maio. Un tipo, Di Maio, furbo a sufficienza da ritrovarsi ai vertici politici dello Stato senza aver fatto gavetta. Avviandosi alla fine della legislatura avrà forse pensato che la permanenza nel Movimento 5 Stelle non gli avrebbe permesso di candidarsi e ricoprire una carica istituzionale per la terza legislatura consecutiva, e rinnegando ogni principio sbandierato in precedenza è saltato tra le braccia del nemico storico. È stata una mossa disperata, e ha avuto l’effetto di compromettere la sua credibilità. La sorte può essere ironica, potremmo dire dunque che cittadine e cittadini votanti hanno aiutato Di Maio a rispettare la regola dei due mandati destinandogli uno scarso 0,5%, e negandogli l’ingresso nel Parlamento. Non troppo distante dal suo partito c’era il terzo polo messo su rapidamente da Calenda e Renzi che probabilmente hanno riscosso il credito dei grandi industriali nostrani molto più dell’ex grillino. L’aggregazione di Azione e Italia Viva non ha raggiunto il dieci percento sperato dai vertici, ma non c’erano davvero le condizioni per confidare in quella percentuale. I trenta seggi ottenuti tra Camera e Senato sono in fondo un esito adeguatamente rappresentativo. Italexit e Italia sovrana e popolare hanno convinto una piccola porzione di antieuropeisti e no green pass, raccogliendo poco. Sono rimasti ben sotto la soglia del 3%, come si poteva prevedere. Ripartire nelle attuali condizioni generali non sarà facile.
Unione Popolare è stata un grosso errore. L’organizzazione principale tra quelle che hanno costituito il cartello elettorale, Potere al Popolo, aveva seguito un percorso di crescita dalle precedenti elezioni politiche. Nonostante qualche errore di comunicazione e di inesperienza era maturata la fiducia da parte di un’area ben definita di cittadine e cittadini. Rinunciare al simbolo, ha tolto al progetto visibilità nell’occasione più grande. Fare squadra con Rifondazione Comunista ha dissuaso non pochi elettori perché da molti anni Rifondazione Comunista si offre a ogni alleanza possibile pur di raccattare qualche seggio. Curiosità: alle precedenti elezioni politiche Rifondazione Comunista aveva partecipato sotto il simbolo di Potere al Popolo, poi si era tirata fuori rischiando di far saltare l’intero progetto. Chissà dove starà la prossima volta. Luigi De Magistris, al di là della correttezza che gli si potrebbe riconoscere, non ha ispirato un senso di rottura.
In attesa dell’insediamento della prima Presidente del Consiglio donna, ci si può affacciare alla finestra e immaginare il futuro. “Tutto deve cambiare affinché nulla cambi”, o qualcosa del genere.